Eletto leader londinese del partito di estrema destra inglese. Ma un passato omosessuale disorienta gli elettori.

(Agi) Per la prima volta nel consiglio comunale di Londra siedera’ anche un esponente dell’estrema destra del British National Party. E’ il controverso Richard Barnbrook, che ha ottenuto 69mila voti come candidato a sindaco e ha fatto cosi’ superare al Bnp la soglia del 5% necessaria per ottenere uno degli 11 seggi attribuiti con il sistema proporzionale nella London Assembly. Barnbrook, leader del Bnp a Londra, e’ un personaggio che sfugge a ogni etichetta: 47 anni, ex insegnante d’arte e pittore, marito dell’ex prima ballerina dell’English National Ballet, con i suoi occhi azzurri e i suoi modi affascinanti ha conquistato molte elettrici londinesi. Ma lo stesso elettorato del Bnp – xenofobo e ‘machista’ – rimase spiazzato da un film che diresse nel 1989 e che fu ritirato fuori due anni fa, “Hms Discovery: a Love Story”, con scene di nudo maschili e allusioni omosessuali. Ad accrescere il disorientamento, “Searchlight”, un’organizzazione antifascista, ha riferito che in passato il misterioso Barnbrook era stato iscritto ai laburisti. Barnbrook ha fatto una campagna elettorale basata sulla necessita’ di contenere l’immigrazione e di dare voce “ai veri londinesi”.

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Disprezza gli omosessuali il nuovo sindaco conservatore di Londra.

«Le unioni omosessuali? Ridicole, se permettiamo a due gay di sposarsi, allora consacriamo anche i matrimoni fra tre gay o fra due gay e un cane».
(Guido Santevecchi – Il Corriere della Sera) Ora dice che il suo eroe è Pericle e promette per Londra «un’età d’oro come quella dell’antica Atene». Ma in passato ha anche buttato lì che «votare conservatore fa venire il seno più grosso alle mogli».
Questo è il nuovo sindaco di Londra: Alexander Boris de Pfeffel Johnson, un po’ genio un po’ clown.
La settimana scorsa gli era arrivato l’appoggio del Sun, il quotidiano popolare di Rupert Murdoch che vende più di tre milioni di copie al giorno. E che ama dare il suo endorsement solo ai vincenti. Nel 1992 il tabloid aveva dato il bacio della morte al laburista Neil Kinnock con il titolo: «Se vince Kinnock, l’ultimo cittadino a lasciare la Gran Bretagna spenga la luce». Dopo, conquistato da Tony Blair, Murdoch si era schierato sempre con i laburisti. Questa volta, per Londra, ha gettato il suo peso sulla bilancia di Boris (come lo chiamano tutti, amici e avversari), il candidato conservatore, deputato, ex giornalista, autore di libri sulla storia dell’antica Roma. Ma anche gaffeur, intrattenitore tv, buffoon per calcolo e per natura. Spostare il Sun può contare molto anche per il futuro della politica nazionale. Dopo otto anni di regno di Ken «il rosso» Livingstone che ha rilanciato l’immagine di Londra, inventato la tassa sul traffico, ottenuto le Olimpiadi del 2012, può essere Boris l’uomo giusto per gestire un bilancio da 11 miliardi di sterline l’anno? A 44 anni, il nuovo sindaco ha nella sua biografia una moglie, quattro figli e almeno due storie extraconiugali (negate oltre i confini dell’evidenza).

BATTUTE POLITICAMENTE SCORRETTE – Delle battute politicamente ultrascorrette si è perso il conto: «Le unioni omosessuali? Ridicole, se permettiamo a due gay di sposarsi, allora consacriamo anche i matrimoni fra tre gay o fra due gay e un cane»; ha insultato intere città: Portsmouth, glorioso porto nel Sud, definendolo «culla di drogati, obesi, falliti e deputati laburisti» e Liverpool «patria di vittimisti». Non ha trascurato escursioni internazionali, dando dei «cannibali » ai governanti di Papua e «negretti» ai popoli del Commonwealth. Poi è venuta la candidatura a sindaco. Ed è cambiato. Capelli più corti e lingua a freno. Basta battute pericolose, solo qualche gioco di parole corretto, tipo: «Io sono un melting pot umano: la mia bisnonna era una schiava circassa e fu comprata dal mio bisnonno turco». E pare che sia anche vero.

AFFLUENZA RECORD ALLE URNE – Ha capitalizzato sull’effetto-stanchezza degli elettori nei confronti di Livingstone. E i londinesi sono andati alle urne in numeri record per queste parti: affluenza al 45 per cento. Più 10% rispetto al 2004. Boris ha vinto con uno scarto di 140 mila voti, 6 punti. La campagna non ha evidenziato grandi differenze nei programmi dei due avversari. Gli elettori hanno aspettative di centro: sicurezza, trasporti, case. E il sindaco di Londra ha competenza su polizia, rete dei trasporti, pianificazione urbanistica, cultura, ambiente e sviluppo economico. Tutti d’accordo sul fatto che servano ancora più poliziotti nelle strade, risparmi nella burocrazia e case a prezzi abbordabili. Sui mezzi pubblici si è assistito a uno scontro da commedia: Johnson lanciato in una crociata contro i bendy bus, gli autobus snodati introdotti da Livingstone al posto dei vecchi routemaster rossi a due piani, senza la porta di dietro, che permettevano di saltar su e giù in corsa. Boris ha promesso di rottamarli perché li giudica goffi e pericolosi per i ciclisti (lui va in bicicletta). Ha aggiunto la promessa di cacciare gli ubriachi da autobus e metropolitana. Idee misere per un sindaco di Londra? Johnson finora ha amministrato solo una rivista da 70 mila lettori (lo Spectator) e Livingstone gli ha rinfacciato di non avere esperienza. Boris non ha resistito e ha gridato: «Sì, ma ho dimostrato leadership, decidevo io dove dovevamo andare a pranzo con i colleghi ». E negli ultimissimi giorni, sentendo arrivare la vittoria, si è lasciato andare di nuovo: «Cocaina? Forse ai tempi di Oxford, a una festa me l’hanno offerta, ma mi ha fatto starnutire » (questa battuta l’ha rubata a Woody Allen).

Elezione sindaco di Londra. Buona parte del programma di Livingstone è dedicato alle istanze gay.

Londra conta un omosessuale ogni sei abitanti.
(Apcom) Per una città come Londra che conta un omosessuale ogni sei abitanti, l’opinione della comunità gay nelle elezioni per il nuovo sindaco ha un certo rilievo. E’ quello che probabilmente ha pensato il candidato laburista Ken Livingstone, dedicando a questa fetta della società un’intera parte del suo programma.

Amico della comunità gay è anche senza dubbio il candidato liberal-democratico, Brian Paddick, gay dichiarato, che deve la sua carriera in polizia e in politica alla grande tolleranza della capitale inglese. Chi non sembra essere delle stesse visioni è il conservatore Boris Johnson che, anche chiedendo l’appoggio della fetta omosessuale della popolazione, non riesce ad appoggiarne l’etica.

Risale alla settimana scorsa, l’invito dell’organizzazione Stonewall, contro le discriminazioni sessuali, ai principali candidatiper discutere delle politiche a favore della comunità gay: con Paddick che ha affermato che non potrebbe essere arrivato dov’è se non fosse stato per il sostegno di associazioni come Stonewall e Livingstone che continua a confermare il suo impegno nei confronti della comunità gay, Johnson spicca con le sue parole, riportate in un comunicato stampa dell’associazione: “Le mie politiche saranno favorevoli a tutti i londinesi, senza distinzioni di sesso”.

A questo si unisce la sua risaputa condanna al cambiamento di una legge inglese che risale alla Thatcher , secondo cui non è consentito educare i ragazzi a scuola alla tolleranza sessuale e all’esistenza delle relazioni omosessuali. Legge che Livingstone sta cercando di modificare.

La posizione del laburista, in linea con le leggi proposte durante i suoi anni a capo di Londra, è completamente favorevole all’unione civile di coppie omosessuali. Come dimostra il Civil Partnership Act del 2004 da lui proposto, che ha dato il via alle prime unioni omosessuali riconosciute dallo stato, Livingstone punta all’integrazione. La campagna attraverso le scuole inglesi per insegnare la tolleranza, una maggiore attenzione delle forze di polizia per evitare il divulgare di discriminazioni sessuali, ma anche politiche di prevenzione per le discriminazioni sul posto di lavoro, sono i punti del suo programma per continuare a supportare la comunita’ gay a Londra.

Il direttore di Stonewall ha ricordato che, secondo delle recenti interviste, circa il 40% della popolazione gay di Londra pensa che verrebbe trattata diversamente rispetto agli altri cittadini se sospettata di un crimine, nonostante i progressi fatti dalla polizia riguardo la tolleranza sessuale. Progressi che sicuramente non possono essere negati considerando la carriera del candidato liberal-democratico Paddick nelle forze dell’ordine.

Si terrà a Londra il terzo torneo internazionale di Rugby per clubs gay.

Il club di rugby inglese Kings Cross Steelers (nella foto), per bocca del suo manager Neil Pyper ha comunicato che il terzo torneo internazionale di rugby per clubs gay si terrà a Londra nei prossimi 22 e 23 maggio 2009.

La prima edizione si tenne Montpellier, in Francia, nel 2005 e l’anno successivo a Copenaghen, dove gli Steelers vinsero il torneo.
Soddisfatto si è detto il sindaco di Londra Ken Livingstone che, secondo quanto da lui dichiarato felicitandosi con i Kings Cross Steelers, vede ancora una volta la città al centro di importanti eventi internazionali qual’è appunto anche il prossimo torneo gay di rugby. “Il torneo sarà inoltre un’occasione per introdurre il rugby nella comunità gay e lesbiche e per ampliare il profilo sportivo e culturale di Londra, dell’Inghilterra ed europea” ha sottolineato Livingstone.

Il torneo avrà una durata di due giorni ed includerà un evento di benvenuto la notte prima dell’inizio del torneo ed una grande festa di arrivederci la domenica 24 di maggio.

Collect, la fiera d’arte internazionale per oggetti da collezione.

Collect - The International Art Fair

Si inaugura oggi 25 gennaio a Londra la quinta edizione di Collect: The international art fair for contemporary objects“.

Unica nel suo genere in Europa, la fiera ospitata al V&A museum, riunisce insieme 42 gallerie internazionali con lavori di 350 artisti di arti applicate. Una fusione di artigianato, design e arte per oggetti da collezione. L’evento presenta anche un calendario di appuntamenti con incontri tenuti sia nella città di Londra che di Edinburgo (Scozia), per educare e riunire collezionisti e artisti di un mercato nuovo e in ascesa.

Tra le galleria anche l’italiana Alternatives Gallery di Roma.

Ultimo giorno della fiera il 29 gennaio.

Tendenze. La moda nasce in strada e finisce in Rete. È boom dei siti che si occupano di «street fashion».

E molti blogger frequentano le sfilate milanesi in cerca di ispirazione.

(Daniele Lorenzetti – Il Corriere della Sera) La rivoluzione dei blog? Sta contagiando anche il mondo della moda. Sono infatti in costante aumento i siti di «street fashion» che scovano stili e tendenze con un occhio all’uomo della strada. Il loro momento d’oro sono le settimane del pret-à-porter (quella della moda maschile è in corso in questi giorni a Milano), quando il popolo dei fashion victims, eccentrico, bizzarro, provocatorio, invade come uno sciame le capitali del settore. Sono loro, gli stylist, i buyer e i giornalisti da “Il diavolo veste Prada” gli arbitri che osservano, annotano, inventano la moda che verrà. Le foto dell’abbigliamento “di strada” da tempo si sono fatte largo anche sulla stampa “seria”: prima le riviste di tendenza, come The Face o I-D, ora persino il New York Times, ospitano una rubrica apposita, e periodiche gallerie di personaggi.

IN RETE – Ma il vero boom si sta compiendo su Internet: una controrivoluzione della moda dal basso che scalza egemonie consolidate, promuove stilisti emergenti e ancora ignorati dal circuito dell’informazione. Tra i siti più popolari c’è quello del fashion blogger Matthew L. Gates, che insieme a tre amici, fotografa gli abiti delle persone per strada a San Francisco, fuori dai locali e poi le posta in www.streetfancy.blogspot.com. Nato nel mese di agosto 2006, «Street Fancy» riceve più di 11.000 visite al mese, soprattutto da studenti d’arte in cerca di ispirazione. Tra i pionieri del nuovo anche facehunter.blogspot.com; ma il catalogo è lunghissimo, da Londra a Helsinki, da New York a Shanghai. Forse il più celebre fashion blogger è Scott Schuman, inventore di The Sartorialist (www.thesartorialist.blogspot.com). La pellicola di Shumann è morbida, elegante, e i suoi soggetti come proiettati in un mondo da sogno. Con la sua bravura questo newyorkese dagli occhi azzurri e l’aria impeccabile, giacca sartoriale e foulard di seta, si è conquistato un incarico da freelance per GQ Magazine e style.com e ora è un divo del settore. A Milano lo si vede appostato al di fuori delle location per immortalare il popolo delle sfilate. «Mi piace scovare personaggi che mescolano stili diversi – dice fuori dal defilé Ferragamo – Cosa penso dello stile milanese? C’è un grande lusso, un senso di estrema qualità e design, una morbidezza e assenza di aggressività… è, come dire, semplicemente bello…».

LA SFIDA – Ma se il Sartorialist è entrato nell’elenco dei 100 blog più influenti del 2007 della rivista Time, ha subito trovato emulatori. Fosco Giulianelli, italiano residente a Stoccolma, ha lanciato il network www.thefashionist.se e presidia pure lui l’uscita delle sfilate milanesi. E adesso, al di là dei blog di moda, anche i siti di social networking come MySpace e Share Your Look stanno lanciandosi nel settore. Su ShareYourLook.com, gli utenti pubblicano regolarmente le foto degli abiti che indossano: per sfidare il conformismo «total look» delle griffes e avvicinarsi almeno un poco al famoso quarto d’ora di celebrità.

La prima volta di Johnny Depp in un musical.

(Daniela Grandi – La7) Anteprima londinese per il nuovo film di Tim Burton “Sweeney Todd”. Debutto nel canto per il “pirata” Depp.

Boy George torna da solista. Dal 23 gennaio 4 concerti a Londra.

(TGCom) Passato attraverso crisi e ricoveri, cocaina e una parentesi da netturbino per “espiare” la sua passione per la droga, George Alan O’Dowd, in arte Boy George, torna sul palcoscenico per cantare. Lo fa con una serie di date allo Shaw Theatre di Londra (dal 23 al 27 gennaio),nel corso della quali tenterà di rispolverare la sua carriera di solista, sacrificata negli anni in nome di vizi e dell’attività di deejay.
Nell’ambito dei grandi ritorni dei gruppi anni Ottanta, ecco un’altra chicca da non perdere.
Boy George tornerà e lo farà in uno dei teatri più cult di Londra, a Camden, il quartiere din cui fino a poco tempo fa abitava anche Amy Winehouse. Ripulito, almeno in apparenza, e sgargiante di colori quanto lo era all’epoca dei Culture Club, il cantante di “Do You Really want To Hurt Me” e “Karma Camaleon” si esibirà come solista, dopo tanti anni dedicati all’attività di deejay.

In verità, prima degli scandali e delle crisi depressive, Boy George era considerato uno tra i più originali disk-jokey della scena dance e le sue serate erano gettonatissime.
Purtroppo però la sua attività di cantante andava sbiadendo; tra il 2003 e il 2004 aveva dato vita ad un nuovo progetto musicale, cantando sotto copertura con lo pseudonimo “The Twin”. Un’esperienza da solista dopo il secondo scioglimento dei Culture Club, avvenuto nel 2002, e culminata con la pubblicazione dell’album “Yum Yum”.
Ora invece il cantante torna con il suo primo nome, orgoglioso di essere passato, anche se non proprio indenne, attraverso ogni sorta di tempeste.

Babilonia e le altre: cinque mostre evento del 2008.

(Marco Di Capua – Panorama) L’evento si annuncia maestoso. E benché a prima vista la scena sembri remota, coperta da una leggendaria sabbia di deserto, poi capisci che ci riguarda molto da vicino. In effetti Babylon, la mostra post-trans-archeologica che si apre al Museo del Louvre di Parigi dal 14 marzo al 2 giugno, simbolicamente ci mette in scena con una certa precisione, provando, se mai ve ne fosse ancora bisogno, che la storia è un cerchio e non una linea retta.

Insomma, qui si narra di Babilonia, l’antica città della Mesopotamia che sorgeva sul fiume Eufrate a qualche decina di chilometri da Baghdad. Al centro di Babilonia Erodoto descrisse una torre, e quella torre nella Genesi è detto che fosse voluta, dopo il Diluvio, dall’orgoglio e dal desiderio di potenza degli uomini, cosicché Dio li punì, facendo loro parlare migliaia di lingue diverse: finirono col non capirsi più gli uni con gli altri. Bella storia, vi dice vagamente qualcosa?
Curata da Béatrice André-Salvini, l’esposizione è una grandiosa combinazione di reperti oggettivi, nelle tappe fondatrici dell’antica città, e di pure visioni di una Babilonia immaginaria. Per dire: qui le fatiche dell’archeologo tedesco Koldewey, che alla fine dell’Ottocento disseppellì la città di Nabucodonosor II, servono da fonte per un racconto fantastico alla Jorge Luis Borges.
Così l’epopea della civiltà babilonese è rappresentata da steli, statue, papiri, manoscritti, tavolette cuneiformi, accanto alla sua individuazione come luogo mitico, con miniature, disegni, quadri. Stupendi i fiamminghi che ebbero in sogno la Torre di Babele, le sue sette terrazze digradanti, di diverso colore.
Più che sognare, si divertirono un mondo i tre geniali moschettieri del Dadaismo, Marcel Duchamp, Man Ray, Francis Picabia: la Tate Modern di Londra li presenta in blocco, in una mostra che si apre il 21 febbraio, si chiude il 26 maggio e si annuncia allegramente sorprendente.
Dipinti, collage, “oggetti trovati” subito dichiarati opere d’arte, fotografie e film raccolgono l’aria di una stagione di grazia che, rivista al suo stato nascente, funziona ancora benissimo. Voglio dire quella roba lì, i giochi e le invenzioni, il gusto per la sperimentazione, tra sense of humour e nonsense, un’etichetta scoperta aprendo a caso il vocabolario (Dada: cavalluccio a dondolo) in un ispirato giorno zurighese del 1916, e poi, che so, l’Orinatoio di Duchamp, i ferri da stiro chiodati e le stampelle di Man Ray, i quadri danzanti di Picabia, e l’energia che li sintonizzò tutti sulle medesime onde di frequenza: non c’è trasgressione attuale, diventata di massa e obbligatoria, che ce li possa rovinare. Quel bel terzetto di spiritosi diffuse Dada in America: il gesto anarchico diventò democratico. Diventò Pop.
Proprio gli Stati Uniti, a New York il Metropolitan, propongono dal 27 febbraio al 18 maggio una completa retrospettiva di Gustave Courbet: 100 opere superbe di un pittore che della passione per la democrazia fece un palcoscenico per il proprio enorme talento. E per la propria vanità.
Francese, originario di Ornans, Courbet (1819-1877) entra con passo narciso e deciso nella storia dell’arte come il padre del Realismo. Nei suoi quadri la percezione di una natura potente e sgarbata è sventolata come uno stendardo polemico contro la città. Parigi diventa tuttavia il teatro d’azione per questo egotico e polemico precursore di ogni artista star: è lui che si fa un vanto dello scalpore che la brutalità delle sue opere suscita. È lui che, con un infallibile istinto di autopromozione espone al pubblico ludibrio i suoi quadri nei salon ufficiali e, contemporaneamente, in uno spazio tutto per sé che intitola al Realismo. Nel trionfo monumentale di operai e contadini, nella fisicità di prostitute accaldate in riva alla Senna, e di animali, rocce e alberi, c’è l’indizio di quella «volontà selvaggia» e di quell’«energia distruttrice di facoltà» di cui, non senza ammirazione, parlava Charles Baudelaire.
Nulla a confronto della spettacolare violenza pittorica che corre sulla linea B dell’angoscia e dell’irrequietezza novecentesche: cioè nelle prossime antologiche italiane dedicate a Francis Bacon e Georg Baselitz. A 10 anni dalla sua ultima mostra in Italia, il Madre di Napoli presenterà (17 maggio – 15 settembre) Georg Baselitz: 88 lavori selezionati in tutto il mondo da Norman Rosenthal, tra quadri, sculture e disegni (Catalogo Electa).
Lui in realtà si chiamerebbe Kern, ma cambia nome quando, espulso da Berlino Est a 18 anni, approda all’Ovest. Decide allora di prendere un suo nome d’arte dalla città dov’è nato nel 1938, Deutschbaselitz, in Sassonia. Funziona come una specie di ancora, di semplice radice dichiarata.
Le sue opere sono essenzialmente campi d’azione pittorica, un’overdose di stimolazioni ottiche. Larghe, potenti pennellate di colori accesi, l’esibizione eloquente di chi si richiama, come si trattasse della sua madrelingua, ai segni dell’Espressionismo tedesco, creano intensissime atmosfere emozionali. Ogni artista contemporaneo impone un tratto, decide un’azione, che lo distingua da tutti gli altri. Quello di Baselitz, a un certo punto, è stato di capovolgere le sue figure. Se ci pensi, un gesto semplice. Bastava pensarci. Un mondo di capoccioni a testa in giù vi guarda, e silenziosamente grida, dai suoi dipinti.
Gridano anche certe figure di Bacon (Dublino 1909 – Madrid 1992), ma quella lì non è gente qualunque. Quelli sono addirittura dei papi. Ogni mostra di Bacon è un evento. E di certo lo sarà anche quella che si apre a Palazzo Reale di Milano dal 4 marzo al 29 giugno. A cura di Rudy Chiappini sono stati scelti 50 dipinti ad alto impatto storico e qualitativo (catalogo Skira). Nel senso che l’intenzione è proprio quella di fornire una visione complessiva dell’opera di colui che, senza dubbio, è stato il più grande artista inglese del ‘900.
A proposito: niente Irlanda, niente gente di Dublino, insomma niente James Joyce. Bacon, il quale pare discendesse dal celebre filosofo-scienziato elisabettiano, si sentiva inglese purosangue.
Indimenticabili le Teste (1949) di questo fedele al volto, benché Bacon quel volto lo sfigurasse, ne contorcesse i lineamenti. Ecco il corpo battuto come fosse in gabbia, il corpo in una stanza, minimo campo di concentramento esistenziale per figure solitarie, papi urlanti, colluttazioni furibonde, nell’impassibile calma di interiors dal design implacabilmente perfetto.
Sempre la figura, perché senza l’uomo non vale la pena. Tranne forse una sola volta: non c’è nulla, soltanto blood on the floor, una pozza di sangue sul pavimento.

LA GALLERY

Dal nostro inviato a Londra: Rent VS Rent.

(Musicalgab) Da un grande fan di Rent, una recensione sull’ultima versione revival di Londra del musical di Jonathan Larson.
Il nostro amico Enrico Zuddas scrive la sua su questa versione “remixed” tanto “contestata” dai fan storici del musical da una parte e amata dai neofiti del genere dall’altra…
Pare però che Rent remixato o meno ancora una volta non abbia conquistato il cuore del pubblico del west end: il revival infatti chiuderà i battenti prima del previsto portandosi a casa critiche non molto lusinghiere…

Noi intanto andiamo a leggerci i pareri del nostro inviato da Londra…

Conosco bene RENT. Ho visto tutti i cast italiani che si sono avvicendati negli anni, ho amato il film, la scorsa estate ho anche organizzato una Masterclass con Francesca Taverni sul tema. Ma allo stesso tempo aver visto questo spettacolo a New York al Nederlander Theatre è stato come scoprirlo per la prima volta. È come pranzare a casa dopo aver mangiato in ristorante: alcuni piatti scontati assumono un sapore diverso, tutto è familiare e vero. Oltretutto, la performance del 4 novembre scorso cadeva in un momento particolarmente sentito dell’anno, ovvero durante la settimana che l’organizzazione Braodway Cares dedica alla lotta contro l’Aids.
Non credo che ci siano commenti che non siano già stati scritti o letti. Posso dire che la coppia Declan Bennett-Harley Jay (Roger e Mark) risulta molto equilibrata; la biondissima Nicolette Hart è una tenace Maureen; nella parte di Mimi, Tamyra Gray, una reduce della prima edizione di American Idol.
Per cui è strano il confronto diretto con la versione “remix”, cui ho assistito il 7 dicembre a Londra e in questi giorni ancora per poco in scena (la chiusura è stata anticipata visto lo scarso successo). Carla, la mia compagna di avventure teatrali, neofita di Rent, è uscita emozionatissima. Pare che questo accada a tutti coloro che non conoscono la versione originale. Con qualche sforzo anch’io sono riuscito a sentire le giuste vibrazioni, soprattutto nel secondo atto (ma chi potrebbe restare indifferente di fronte a I’ll cover you reprise?). Però molte sono le domande che restano senza risposta.
Questo nuovo Rent è inteso per avvicinare un pubblico nuovo e giovane allo spettacolo; dietro il progetto si cela il creative team che segue Kylie Minogue, capitanato dal regista William Baker. Per questo pubblico giovane è stato prevista una nuova strategia nella vendita dei biglietti, con posti non assegnati (con il risultato però che le prime file sono spesso vuote, perché alla fine tutti questi giovani adoranti non ci sono). Per i giovani è stato pensato anche un approccio un po’ più concertistico e pop, con la presentazione in un prologo-medley di tutti i pezzi all’inizio (in genere, se escludiamo le overtures, noi il megamix lo ascoltiamo più volentieri alla fine!).
E allora partiamo dalla musica: alcuni arrangiamenti sono interessanti, particolari, funzionanti. Per esempio Out tonight che diventa una sorta di sensualissima Fever, oppure What you own che diventa una ballad acustica per il solo Mark. Seasons of love è inserito in modo abbastanza riuscito con brevi frammenti nel plot. Altri pezzi perdono invece tutta la loro forza: primo fra tutti Take me or leave me, che riarrangiato in forma dance proprio non funziona. La superstar Denise Van Outen fa di Mauren una superstar strafiga, al punto che è stata paragonata da molti a Madonna. La sua performance di Over the moon, cui nulla resta del tocco underground dell’originale, è comunque un’efficace apertura del secondo atto; il pubblico continua a muggire e lei oltretutto flirta con una ragazza della prima fila. L’unico difetto è che la Van Outen risulta un po’ troppo vecchia e un po’ troppo diva rispetto al resto del cast, facendo poco gruppo con gli altri.
L’ambientazione è stata privata di gran parte della cultura e dell’atmosfera newyorkese; gli attori anzi recitano con uno spiccato accento inglese. La personalità di Mark ben si adatta al British way of life, i suoi modi sono convincenti, forse grazie anche all’eccellente interpretazione di Oliver Thornton. Certo molto più difficile risulta ricodificare Angel, che richiama un modello gay londinese, molto pieno di stile e di fashion, lontano dalla spontaneità dell’Angel che tutti conosciamo; mi chiedo fino a che punto lo spirito ne sia stato tradito. La mescolanza di caratteri americani e anglosassoni non è ben riuscita, o per lo meno non è condotta fino in fondo e con coerenza. Certamente i puristi non riusciranno ad accettare la nuova ambientazione in un loft tutto bianco, con un raffinato divano e una stilizzata porta con luce al neon. Molto efficace invece una scritta luminosa che, in una sorta di conto alla rovescia, sottolinea il passare del tempo, con i famosi “five hundred twenty five thousand six hundred minutes”, e che durante il Life Support ricorda i nomi di tanti artisti morti di Aids, da Rock Hudson a Freddy Mercury. Ma alcuni accorgimenti lasciano molto perplessi, per esempio l’uscita di Angel da una scala in cielo “à la” Grizabella, o anche l’anticipazione della canzone di Collins rispetto agli altri monologhi del funerale (con conseguente perdita dell’effetto climax). Resta comunque valida e interessante l’idea di fare uscire Rent dalla sua connotazione geografica e cronologica, per mostrarne l’universalità del messaggio; con i grandi capolavori del resto il cinema e il teatro lo fanno sempre; ci si può chiedere forse se il momento non sia prematuro, con l’originale ancora in scena, e se l’operazione non sia stata condizionata da qualche interesse commerciale di troppo. A pensarci bene, a volte è un peccato che un musical suoni sempre uguale, in modo “globalizzato”, in qualunque parte del mondo tu sia (tranne che in Italia, dove in genere suona male o non suona!); ben venga dunque l’innovazione, per non impigrire le nostre orecchie e le nostre teste, purché non sia gratuita e fine a se stessa.

Enrico Zuddas